Inediti
L’inizio del Novecento fu l’era delle avanguardie alle quali ancora oggi guardare soprattutto con ammirato stupore. Perché pare a noi impossibile, chiusi come siamo nelle gabbie della società dei consumi, la più aculturale quando non anticulturale delle civiltà contemporanee, che così pochi personaggi (che vorremmo definire intellettuali sperando che non si sentano sminuiti) in così poco tempo siano riusciti a proporre così tante opere. Restiamo continuamente affascinati dal Suprematismo di Malevic e dei suoi compagni di viaggio, nel quale i simboli geometrici rappresentano la sintesi della percezione, e ancora di più dal Costruttivismo di El Lissitzky e di Rodcenko quando, abbandonato il bisogno di rappresentare, si persegue la necessità di costruire. L’arte quindi assume una funzione educativa che si esprime nell’architettura e nella progettazione industriale ma, soprattutto, nella comunicazione grafica. Altre pagine affabulanti restano quelle dei dadaisti e dei futuristi nostrani però, a ben vedere, la lezione del Costruttivismo, come assorbita dal Bauhaus di Weimar e di Dessau, é forse quella che é riuscita ad arrivare quasi intatta sino a noi. Indipendentemente dai fondamenti etici di Gropius e colleghi, sfociati nella realizzazione di una unità ideologica tra diverse attività artistiche, artigianali o di progetto, anche gli esempi di composizione tipografica o le ricerche che preludono al disegno geometrico di nuovi caratteri rimangono passaggi obbligati della nostra formazione. Tanto che ci sentiremmo di proporre, tra i corsi base del nuovo corso di laurea in design della comunicazione visiva, un approfondimento del Costruttivismo completato da esercitazioni di Decostruttivismo. Perché saper smontare i giocattoli può insegnarci a costruirli molto di più che insistere su certa propedeutica troppo simile alla meccanica degli I ching. Del resto uno dei maggiori logici del secolo scorso, Kurt Gödel, ci ha lasciato un teorema che dice «ogni presunta formalizzazione della teoria dei numeri lascia sempre fuori alcune verità numeriche» affermazione che potremmo girare, per conoscenza, alla teoria della Gestalt.
Nota conclusiva, la copertina ha più sapore di Postmoderno che di Predada.
Bene così, non solo perché stata disegnata solo dieci anni fa, ma perché il movimento Postmoderno, e soprattutto Memphis, meritavano almeno una citazione visiva ed un grazie per la ventata di primavera nell’inverno razionalista.